Il 17 maggio è la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, e ci tengo a pubblicare l’intervento che ho tenuto in Sala Rossa durante la cerimonia ufficiale della Città di Torino
Autorità,
signore e signori,
buongiorno.
Voglio iniziare ringraziandovi sentitamente per la vostra presenza a un momento che come Città abbiamo scelto di riproporre quest’anno per tenere alta l’attenzione su un tema delicatissimo. Perché “nessun dorma”, in Comune come nel resto della comunità di cui noi tutte e tutti siamo espressione.
Tuttavia il grazie più grande va al vostro impegno quotidiano nell’affrontare la lotta contro l’omofobia e la transfobia, e concedetemi un pensiero particolare al servizio LGBT della Città di Torino per il grande lavoro svolto anche nell’organizzare questa giornata. Una lotta estremamente aspra, come tutte quelle che – sulla stessa falsariga – si pongono come obiettivo quello di mettere in discussione costrutti culturali radicati, che in questi casi prendono la forma di luoghi comuni e timori irrazionali.
Alessandra, Marco, Giovanni, Alice, Ylenia, Sandro, Giorgio, Marianna, Mohammed, Laura, Yvonne, Richard, Irina, Andrea… la domanda che dobbiamo farci è: cosa rappresentano per noi queste parole?
“Nomi”, direte voi. È evidente. Ognuno di noi, sin dalla tenera età, ha imparato a riconoscere alcune parole come nomi di persone.
Ma questi nomi, cosa significano? Da un punto di vista strettamente letterale nulla, finché non gli diamo noi un significato.
Ecco che Marco è una persona di genere maschile, Laura di genere femminile, Andrea potrebbe essere l’uno o l’altro, Richard con ogni probabilità è straniero anche se non è raro come nome d’arte, Mohammed probabilmente è arabo, e chissà da dove arriva e come è arrivato qui (dite la verità, per Richard non vi siete fatti questa domanda).
Ma non solo. Vi hanno detto che Laura è fidanzata con Sergio, sono felici e hanno due figli.
Andrea invece stava con Irina, poi però la storia non è andata bene e ha iniziato una relazione con Giovanni.
Ah, ma quindi Andrea è maschio o femmina?
Ecco, qui si interrompe il nostro pattern di pensiero. Qui qualcosa stona. Qui c’è qualcosa che non ci torna. Qualcosa che tutti noi in questa sala capiamo e accettiamo, non ho dubbi, ma non subito. Non con l’immediatezza con cui in una frazione di secondo avevamo immaginato la relazione felice di Laura e Sergio, delle loro prime uscite, della loro casa e delle gite domenicali con i figli.
Ma potrebbe esserci altro. Ad esempio, Giorgio e Marianna potrebbero essere la stessa persona in un momento diverso della vita. E qui la messa in discussione del modello è ancora più intensa.
O, ancora, uno specifico quadro sociale e comportamentale potrebbe portare a interrogarci su quanto il modello che abbiamo in mente sia adeguato a leggere e interpretare la realtà.
Già, perché nella maggior parte dei casi è a questo che servono i modelli di pensiero: a interpretare il mondo che abbiamo intorno a noi e a completare i pezzi del mosaico partendo dalle tessere a disposizione.
Ma cosa succede quando il mosaico che ricreiamo non trova più riscontro nei fatti che ci circondano? Spesso la risposta è in una reazione istintiva: paura.
Si ha paura di ciò che non conosciamo. È una banalità detta così ma è normale. Uno dei nostri principali vantaggi evolutivi – come racconta bene Yuval Noah Harari nel suo testo From Animals Into Gods: a Brief History of Humankind – è proprio quello di riporre fiducia in modelli di pensiero che prescindono dalle contingenze. Attraverso questi si creano ordini sociali che nel corso dei millenni hanno portato alle Comunità che conosciamo oggi.
La paura tuttavia ha un contraltare estremamente potente, che è la conoscenza. Tanto più l’oggetto che temiamo è conosciuto, tanto più diminuirà la nostra paura nei suoi confronti. Questa conoscenza diventerà un’ulteriore tessera del mosaico che potremo completare con un elemento reale e non con una nostra ricostruzione. Un maggior numero di tessere permette nel tempo di creare disegni più grandi e, grazie alla nostra capacità di immaginare oltre i confini del reale, anche di esplorare mondi, realtà e modelli completamente nuovi.
È un esercizio difficile, senza dubbio. Ma è altrettanto fuor di dubbio che i più grandi sviluppi delle società siano arrivati proprio da cambi di paradigma importanti. In qualunque ambito della conoscenza si verificassero: ambito scientifico, sociale, umanistico e così via.
Per questo motivo – e torno al tema del nostro incontro – l’impegno che ribadiamo oggi con questa giornata è a un tempo oneroso e imprescindibile.
Noi possiamo e dobbiamo affrontare l’omofobia e la transfobia con l’unica arma che nel tempo garantirà la promozione di un modello culturale che potrà fare a meno delle domande sul genere, sugli orientamenti sessuali o su considerazioni che prescindano dall’autodeterminazione dell’individuo.
Io credo che la Politica e le Istituzioni – inclusa l’Istituzione su cui si fonda la nostra società che è la famiglia, comunque venga intesa – abbiano un ruolo dirimente in questo frangente e sono convinta che solo la collaborazione di tutte le parti, che adotti come strumenti primari la cultura e l’educazione, possano affrontare in maniera compiuta la sfida contro l’omofobia e la transfobia.
E voglio concludere questo mio intervento parlandovi di un mio amico. Un amico che ha molti anni più di me con il quale, compatibilmente con i miei impegni da Sindaca, cerco di restare sempre in contatto. È un signore distinto, elegante, molto torinese nell’accezione sabauda del termine. Il tipo di gentiluomo d’altri tempi che non manca mai di donare dei fiori a una signora.
Ecco, l’ultima volta che siamo andati a pranzo insieme mi ha raccontato, con un comprensibile misto di rabbia e tristezza, che ancora oggi, nel 2018, gli capita di incrociare persone che rendendosi conto della sua omosessualità non mancano di manifestargli il proprio disprezzo.
Il mio amico si chiama Gianni, e penso che qui dentro siamo in molti a conoscerlo.
Franco e Gianni sono stata la prima coppia omosessuale unita civilmente a Torino, nell’estate 2016. Anche durante gli anni da Consigliera Comunale mi era capitato di sposare delle coppie, soprattutto amici e conoscenti. E ogni volta in cui celebri l’unione di due persone hai una grande responsabilità: nella loro memoria resterai per sempre colei o colui che, in un giorno indimenticabile, ha ufficializzato davanti alla legge il loro amore. Ma rappresentare questo per Franco e Gianni ha avuto tutto un altro significato. Per la loro vita, per le loro lotte, per quei 52 anni attesi prima di essere riconosciuti come una famiglia dalle Istituzioni.
Già, perché essere riconosciuti, dalla legge e dal linguaggio, non è affatto una questione marginale. Assegnare un nome alle cose è il primo passo per dare loro legittimità. Per questo motivo io e Marco Giusta abbiamo deciso insieme, appena insediati, di passare dall’Assessorato “alla famiglia” a quello “alle famiglie”: per dare un nome a quelle realtà che già esistono e che spesso non trovano un riconoscimento, cominciando a considerare anche nel linguaggio pubblico migliaia di persone che finora non sono state rappresentate.
E ritengo questo cambio di approccio assolutamente necessario: l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia sono diffuse nel nostro Paese, così come la violenza di genere nei confronti delle donne. Sono problemi strutturali, culturali e sociali. Nemmeno Torino ne è immune, purtroppo, anche se la Città negli anni ha sviluppato gli anticorpi che ci permettono di reagire uniti, come una voce sola di fronte a casi di violenza o discriminazione.
Temo di non essere in grado di spiegare l’orgoglio che provo per l’amicizia che ci lega e per tutto quello che ormai Gianni rappresenta per la comunità LGBTQ e per quella torinese in generale. Come se fosse una persona di famiglia, un amico per cui hai fatto il tifo e che finalmente, dopo una vita di lotte, ha raggiunto la sua vittoria. E, di pari passo, è difficilmente descrivibile la vergogna che provo per chi si crede forte umiliandolo.
E non nascondo neanche il grande orgoglio provato nell’essere stata la prima Città in Italia a riconoscere nella loro interezza le famiglie omogenitoriali e i loro bimbi e bimbe con i loro diritti, finalmente.
Quindi grazie a tutte e tutti per essere qui, grazie per tutti i Franco e Gianni, del mondo, per Giorgio, Marianna, Mohammed, Laura, Yvonne, Richard, Irina, Andrea…
Grazie.