I fatti di Évian
A meno di 300 chilometri da qui, sulle rive francesi del lago di Ginevra, c’è un piccolo paese turistico: Evian-les-Bains. È lì, all’hotel Royal, che nel luglio del 1938 arrivano i rappresentanti di 32 paesi del mondo: Argentina, Australia, Belgio, Bolivia, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Danimarca, Ecuador, Francia, Guatemala, Haiti, Honduras, Irlanda, Messico, Olanda, Nuova Zelanda, Nicaragua, Norvegia, Panama, Paraguay, Perù, Regno Unito, Repubblica Dominicana, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Uruguay e Venezuela.
[embedyt] https://www.youtube.com/watch?v=Gz69solRHSQ[/embedyt]Sono a Evian per una conferenza, dal nome altisonante di “Comitato intergovernativo per i rifugiati dalla Germania (compresa l’Austria)”. C’è la stampa, ci sono osservatori di altri paesi e ci sono oltre cento organizzazioni presenti: l’evento potrebbe essere epocale. La Germania nazista non è rappresentata ufficialmente, ma ha mandato anche lei i suoi osservatori.
La conferenza ha tra gli obiettivi espliciti quelli di facilitare l’insediamento di “rifugiati politici” proprio dalla Germania e dall’Austria, di valutare i casi più urgenti, di immaginare un sistema di documentazione internazionale per i rifugiati che non hanno modo di ottenere documenti in altri modi. Poco più di tre mesi prima, dopo l’annessione nazista dell’Austria e l’aumento improvviso di perseguitati, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt ha mandato gli inviti, sottolineando però che non ci si aspettava che nessun paese accogliesse più immigrati di quanti prevedesse la legislazione esistente. Nei documenti preparatori prima, e poi nel corso della conferenza, si fa di tutto per evitare di usare la parola “ebrei”: ciascun paese deve fare i conti con i propri nazionalisti e i propri antisemiti, e si preferisce di gran lunga parlare, più in generale, di “rifugiati politici”, definiti come “persone che vogliono lasciare la Germania tanto quanto quelli che l’hanno già fatto”.
Per l’opinione pubblica mondiale, però, è tutto chiaro: ci si trova di fronte a un disastro umanitario.
Di diverso avviso sembra essere Galeazzo Ciano, genero di Mussolini e suo ministro degli esteri, che a marzo scrive nel suo diario:
L’Ambasciatore d’America è venuto a chiederci l’adesione alla costituzione di un Comitato internazionale con lo scopo di favorire l’emigrazione dei profughi politici dalla Germania e dall’Austria. Gli ho risposto che una simile richiesta urtava più che le nostre direttive negli affari internazionali, la nostra morale politica. Philips si è sorpreso della mia risposta. Vedeva nella proposta un aspetto umanitario. Io soltanto uno politico.
Ecco l’arrogante ferocia del fascismo, nell’anno infame, il 1938, l’anno in cui è in cantiere la legislazione antisemita, che calerà come una scure sugli ebrei presenti nella penisola da generazioni, ed espellerà quelli che negli anni precedenti avevano trovato qui una pace momentanea. L’alleanza dell’Italia fascista con i nazisti, l’asse Roma-Berlino, oramai è solida: Italia e Germania si preparano a mettere a ferro e fuoco il mondo intero, ma l’appunto di Ciano sembra rappresentare la posizione di molti – se non di tutti – i paesi europei di fronte alla crisi umanitaria in corso.
E ad Evian va tristemente in scena quella che gli psicologi sociali chiamano “diffusione di responsabilità”: una sorta di drammatico effetto a catena.
“Se nessuno si assume una responsabilità, perché dovremmo farlo noi?”, dicono in sostanza tutti i delegati, uno dopo l’altro.
E la conferenza, iniziata il 6 luglio, si conclude nove giorni più tardi – dopo tante, tantissime parole –, con un nulla di fatto. L’esito è sintetizzato così da un articolo apparso sul “New Statesman”:
Tutti gli Stati presenti manifestano grande empatia per le vittime della persecuzione, ma nessuno di loro può o vuole aprire le sue porte a un flusso di rifugiati. Ciascun delegato ha spiegato le proprie difficoltà, e ha porto le sue scuse.
È una vittoria del nazifascismo.
A settembre, Hitler dirà trionfante che nei paesi democratici “non c’è spazio per gli ebrei”, mentre pochi giorni dopo Mussolini, da Trieste, tuonerà la sua invettiva contro “l’ebraismo mondiale”, oramai perseguitato anche dalle leggi razziali italiane: “il problema di scottante attualità è quello razziale. L’ebraismo mondiale è stato un nemico irreconciliabile del fascismo”, urlerà. Il suo discorso verrà seguito da un terrificante boato della folla, un boato di approvazione di cui non smetteremo mai di vergognarci, un boato molto simile, per intensità, a quello che accoglierà la dichiarazione di guerra del duce a Francia e Gran Bretagna, con la quale l’Italia scenderà sul campo di battaglia al fianco della sua storica alleata, la Germania nazista.
L’abbiamo ricordato in questa sala, l’anno scorso: allo scoppio del conflitto sono centinaia di migliaia gli ebrei scappati dalla grande Germania, in un vero e proprio esodo senza vie di fuga certe. Ma molti, troppi, a causa delle “quote” del tempo, alla fine degli anni Trenta si trovano in trappola, e presto diventerà impensabile tentare di uscire dal Terzo Reich.
Chissà che storia staremmo raccontando, oggi, se quando era ancora possibile fosse andata diversamente. Se quel giorno, sulle rive francesi del lago di Ginevra, i 32 Stati presenti avessero detto: “Accogliamoli, apriamo le frontiere”. Se due, tre, cinque, dieci delegati, avessero detto: “Se nessuno si assume questa responsabilità, lo facciamo noi”.
Tutti i paesi del mondo, all’epoca, si sono limitati a regolamentare i flussi migratori esistenti, e nessuno si è posto concretamente il problema di mettere in atto un’operazione sistematica di salvataggio. Il mondo, in poche parole, era diviso in luoghi dove gli ebrei d’Europa non potevano vivere e in luoghi in cui non potevano entrare, si diceva già all’epoca. L’Italia fascista si trova presto in entrambi i ruoli: perseguitando i “propri” ebrei, nega l’accesso a quelli già perseguitati da altri, respingendoli al confine. Da terra di rifugio, la nostra penisola si trasforma così in una delle tante anticamere europee dello sterminio.
Se la conferenza di Evian che oggi voglio ricordare ha avuto un merito – se di merito si può parlare – è stato quello di sottolineare il fatto che avere milioni di persone in fuga dalla persecuzione significava trovarsi di fronte a una questione globale, che riguardava tutti. Ma – lo sappiamo – è servito a poco. Tre anni e mezzo più tardi, sulle rive di un altro lago, nella zona residenziale di Berlino, a Wannsee, la Germania nazista metterà a punto la pianificazione sistematica della “soluzione finale” della “questione ebraica”: lo sterminio degli ebrei d’Europa.
Inesorabile, spietata, la Shoah, nel frattempo iniziata, travolgerà l’Europa e la sua memoria.
Oggi, qui, vogliamo ricordare con forza che la storia avrebbe potuto – che la storia avrebbe dovuto – prendere un’altra direzione.
Una direzione che scegliamo ogni giorno
Non mi sento di esagerare dicendo che davanti a quel bivio noi ci troviamo ogni giorno e che noi, e soltanto noi, possiamo scegliere qual è la direzione da prendere e scongiurare qualunque forma di rinascita – o forse dovremmo dire sopravvivenza – di quei germi culturali che hanno permesso la realizzazione dell’evento più terribile che il Secolo Breve abbia conosciuto in Europa. Appunto, la Shoah.
Il riferimento alla cultura non è casuale ma è cogente, e non mi stancherò mai di ripeterlo.
Qualunque forma di pensiero o di categorizzazione che ponga le differenze come cifra del suo giudizio è di per sé un campanello di allarme a cui abbiamo il dovere di rispondere con la forza della ragione.
Il pensiero va in particolare al dibattito che si sta sviluppando in questi giorni e che ha riportato il termine “razza” nei nostri discorsi.
Se è vero che il modo in cui utilizziamo le parole riflette la struttura del nostro pensiero, l’utilizzo del termine “razza” senza colpo ferire è estremamente preoccupante. Potremmo definirlo un lapsus sociale dove ignari conversatori utilizzano quella parola come corrente, dandole con il suo stesso utilizzo quella legittimità che vorrebbero combattere con gli argomenti.
Qualora non fosse stato ribadito a sufficienza, la nostra razza esiste, è una ed unica: quella umana. Ciò che all’interno di essa si muove con lo stesso termine non è più razza ma è razzismo.
A tal proposito mi permetto di suggerirvi una lettura, dal titolo Razza o pregiudizio? L’evoluzione dell’uomo fra natura e storia, che vede tra gli autori il genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza, le cui riflessioni hanno dato importanti contributi anche all’antropologia e alla storia.
Ragazze e ragazzi, voglio rivolgermi a voi nelle ultime frasi di questo mio discorso: siete il futuro di questo Paese, e nell’epoca della globalizzazione siete il futuro del mondo intero. Le vostre menti, la vostra conoscenza, la vostra cultura e – soprattutto – la vostra memoria, sono le uniche armi che abbiamo per garantire a tutte le Comunità un futuro migliore. Siate resistenti, con tutte le forze che avete.
Davanti a quel bivio la direzione dovrete sceglierla voi, e sono certa che sceglierete quella giusta.
Grazie a tutte e tutti, e un ringraziamento particolare a Carlo Greppi per il prezioso aiuto nello scrivere questo intervento.
Un commento su “Giornata della Memoria 2018”