Il 12 settembre del 1943, quattro giorni dopo l’annuncio dell’armistizio che diede il via all’occupazione nazista e alla guerra civile, un pugno di uomini si ritrovò alla cappella-santuario di Madonna del Colletto, nel cuneese. Erano dodici, e diversi mesi dopo sarebbero stati raggiunti da Nuto Revelli, un ufficiale di carriera reduce dalla campagna di Russia, e che laggiù aveva iniziato a maturare la decisione che lo avrebbe reso un pilastro dell’Italia del dopoguerra: la scelta partigiana.
Senza le prime bande partigiane, senza “quelli di Paraloup” e tutti coloro che nelle vallate piemontesi, sugli Appennini e un po’ ovunque nella penisola seppero subito da che parte stare, non ci sarebbero stati decine e decine di migliaia di ventenni che, nei mesi successivi, impararono a dire “no”, che rifiutarono di arruolarsi nell’ultimo, feroce, fascismo – quello di Salò.
Che salirono in montagna, che si resero invisibili in città.
Che entrarono nella Resistenza.
Che seppero – anche loro – scegliere, a differenza di quelli che misero in atto strategie di sopravvivenza, schiacciati tra il consenso e la paura. A differenza di chi, come ha scritto il grande storico Claudio Pavone, “fece il possibile per sottrarsi alla responsabilità di una scelta o almeno cercò di circoscrivere confini e significati, avallando di fatto la continuità delle istituzioni esistenti e accettando insieme che il vuoto venisse riempito dal più forte”.
“Il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale”, scriveva sempre Pavone, “è implicito nel suo essere un atto di disobbedienza. Non si trattava tanto di disobbedienza a un governo legale, perché proprio chi detenesse la legalità era in discussione, quanto di disobbedienza a chi aveva la forza di farsi obbedire. Era cioè una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù”.
Facciamo fatica a immaginare questo esercito composto in gran parte da ragazzi, oggi, dopo aver ascoltato per decenni le voci di quelli tra loro che sono diventati anziani, e che da anziani hanno salvaguardato la memoria di una lotta nella quale erano confluite tante di quelle anime che, a ricordarle a settantadue anni di distanza, non ci sembra vero. Non mancarono contrapposizioni, differenze e tensioni, è vero: ma l’esercito dei partigiani seppe prepararsi in maniera unitaria all’insurrezione finale, che stasera noi siamo qua a celebrare.
Noi che non c’eravamo, noi che siamo immensamente grati a questi uomini e queste donne, a questi ragazzi e a queste ragazze del secolo scorso. Ragazzi e ragazze che, dopo avere scelto di combattere, tornarono alla vita quotidiana, se ne dovettero inventare una da capo, provarono a costruire un mondo migliore di quello in cui erano nati, cresciuti o invecchiati.
Giorgio Agosti, commissario politico delle Formazioni Giustizia e Libertà del Piemonte e poi primo questore della Torino liberata, ha scritto a proposito di chi aveva combattuto e aveva conosciuto la politica nell’Italia del dopoguerra, a proposito di quel
“ritorno, silenzioso, un po’ timido, un po’ scontroso, a quelle posizioni di fede e di intransigenza morale che han costituito i primi scogli contro cui si è infranta nel settembre ’43 la marea fascista”:
“Gente seria, gente onesta, che a un certo momento piantava tutto e partiva, tanto più volentieri quanto più disperata pareva la partita. E poi se ne tornava a casa, brontolando per un po’ vedendo che le promesse non erano state mantenute e i risultati non eran proprio quelli per cui si era combattuto.”
Alla base della società libera e democratica in cui viviamo noi, oggi, c’è la Resistenza – un fenomeno unico nella storia italiana, un fenomeno commovente che seppe farsi unitario – e c’è l’antifascismo. C’è l’opposizione ventennale degli antifascisti che non chinarono mai la testa nonostante le persecuzioni, la prigione, l’esilio, ci sono le scelte immediate e rinnovate di chi nell’autunno del 1943 non ebbe esitazioni e impugnò le armi contro nazisti e fascisti, e ci sono anche le scelte di chi lo capì dopo, o un po’ alla volta.
E, soprattutto, ci sono delle promesse da mantenere, ci sono delle virtù da riaffermare. C’è quello che per un numero incalcolabile di persone fu un imperativo morale, un imperativo ad agire, a opporsi con fermezza alla cultura della sopraffazione, del disprezzo e della violenza con cui il fascismo aveva avvelenato l’Italia.
E allora oggi, qui, noi donne e uomini liberi ricordiamo le scelte di chi ha “piantato tutto”, e per la nostra libertà ha combattuto. Attraverso loro, la loro eredità, possiamo comprendere anche a quali orrori porti la guerra. Nel conservare la memoria di quei giorni lontani nel tempo dobbiamo sentire su di noi la responsabilità di mantenere viva la libertà in primo luogo nella pace, alla quale ognuno di noi è chiamato a contribuire anche con scelte resistenti. In un’epoca nella quale sembrano moltiplicarsi i venti di guerra e la libertà diminuisce i suoi spazi, ancora una volta l’esempio di 74 anni fa – di quel lontano 8 settembre – ci deve guidare nella lotta per un mondo migliore.
Ada Gobetti, partigiana e poi vicesindaco di Torino, quando lo pubblicò, scrisse una dedica in apertura del suo “Diario partigiano” :
“Dedico questi ricordi ai miei amici: vicini e lontani; di vent’anni e di un’ora sola. Perché proprio l’amicizia – legame di solidarietà, fondato non su comunanza di sangue, né di patria, né di tradizione intellettuale, ma sul semplice rapporto umano del sentirsi uno con uno tra molti – m’è parso il significato intimo, il segno della nostra battaglia. E forse lo è stato veramente. E soltanto se riusciremo a salvarla, a perfezionarla o a ricrearla al disopra di tanti errori e di tanti smarrimenti, se riusciremo a capire che questa unità, quest’amicizia non è stata e non dev’essere solo un mezzo per raggiungere qualche altra cosa, ma è un valore in se stessa, perché in essa forse è il senso dell’uomo – soltanto allora potremo ripensare al nostro passato e rivedere il volto dei nostri amici, vivi e morti, senza malinconia e senza disperazione”.
Un buon 25 aprile, un 25 aprile che ci renda più uniti, a tutte e a tutti voi
Un ringraziamento speciale a Carlo Greppi per il suo contributo, come storico, nello scrivere queste parole.