“Ok, ma quando arriva il sindaco maschio?”
È una domanda che più di una volta mi è capitato mi ponessero bimbe e bimbi delle scolaresche in visita al Municipio. Finché sono state possibili, se ero in ufficio, mi piaceva accoglierli e mostrare loro gli spazi dove si esercita la rappresentanza.
Mi presento e può capitare che dicano: “Ok, ma quando arriva il sindaco maschio?”.
Perché? Perché aspettano il sindaco uomo. Questo rivela che è così che sono abituati a pensare a questa figura perché è così che ne hanno sempre sentito parlare. Al maschile.
Così come siamo abituati, pressoché da sempre, a pensare ad alcune professioni esclusivamente al maschile ed altre esclusivamente al femminile.

Non è una colpa, e sono certa che non ci sia nessuna particolare intenzione dietro. Più semplicemente, è un’abitudine propria della nostra società e della nostra cultura.
È il motivo per cui sostengo e sosteniamo fortemente l’uso del linguaggio di genere. Cosa che, nella nostra Amministrazione, abbiamo adottato sin dal primo giorno. Tanto nei documenti ufficiali quanto nel parlare quotidiano. Il modo in cui parliamo riflette il modo in cui pensiamo. Ogni giorno, non solo in occasioni come la Festa della Donna.
La lingua è una materia viva. Cambia nel tempo, cambia negli spazi, condiziona e viene condizionata. Anche dal pensiero.
Oggi non parliamo come si parlava cento anni fa, e tra cento anni (ma anche molto meno) non si parlerà come si parla oggi.
Se una bambina cresce sentendo che alcune professioni hanno una connotazione linguistica esclusivamente maschile, crescerà ritenendo un’eccezione il fatto che quella professione la svolga una donna. E questo è un danno enorme che stiamo facendo alle future generazioni.
Sia chiaro, non solo di donne, ma di donne e di uomini.
Per quale motivo siamo portati da sempre a pensare che “il sindaco” è maschio e “la maestra” è femmina? Perché sono sempre stati declinati l’uno al maschile l’altra al femminile. Così, crescendo, i bambini e le bambine saranno portati a pensare che il sindaco è uomo e la maestra è donna.
È una questione di identità. Io mi identifico con ciò che mi rispecchia di più, e in questo senso immagino il mio futuro.
Le parole sono un potentissimo strumento di immaginazione.
Personalmente sogno un mondo in cui ogni bambino e ogni bambina possano immaginare di diventare quello che vogliono.
Senza schemi e senza pregiudizi, senza stereotipi né barriere, innanzitutto culturali. Che siano sindache o sindaci, ingegnere o ingegneri, tate o tati, maestre o maestri, farmaciste o farmacisti, artiste o artisti.
Lasciamoli immaginare.
Lasciamo che la loro fantasia possa creare il futuro che vogliono.
Date loro le parole per farlo. La lingua cambierà di conseguenza, e continuerà ad essere la nostra bellissima lingua.
Vi abbraccio.