Poco più di trent’anni fa, quando la generazione dei nostri genitori aveva la nostra età, Torino era una città ferita, una città – come gli altri centri urbani del Paese, e non solo – asfissiata dalla paura.
È un tempo la cui memoria è ancora incandescente, e che a molti di voi e dei nostri concittadini evoca ricordi vivissimi. Per noi le immagini e i racconti di quell’epoca sono terrificanti, ancora difficili da elaborare. Sono stati definiti “gli anni della violenza”: una violenza politica senza pari che venne inaugurata con lo stragismo e che inquinò per cerchi concentrici tutta la società, a partire da chi – almeno a parole – avrebbe voluto cambiare il mondo.
Benedetta Tobagi, una giovane donna nata nel 1977, ha pubblicato uno dei libri più intensi che siano stati scritti su quegli anni. È la storia di suo padre Walter, che praticamente non ha mai conosciuto. Un giornalista, una persona per bene, una delle 24 persone assassinate dal terrorismo rosso nel solo 1980, l’anno della strage alla stazione di Bologna.
Il libro si intitola Come mi batte forte il tuo cuore. È un tentativo, coraggioso e commovente, di fare i conti con le ferite di quegli anni, anche cercando di capirne i protagonisti. Scrive Benedetta Tobagi:
“Spesso non si ha una percezione reale del processo di deumanizzazione che coinvolge sia il carnefice che la vittima. Ci si ferma all’attimo dell’esecuzione, ma questo non è che il momento culminante di una lunga catena di azioni preparatorie con cui gli attentatori e i loro complici stringono la rete attorno a un uomo inerme. Una lunga danza macabra. Gruppetti di ragazzi e ragazze di venti, massimo trent’anni – persone che hanno amici, un amore, magari dei figli – osservano la vittima predestinata, la seguono, giorno dopo giorno, la vedono con i bambini, con la moglie, o la fidanzata. Imparano a conoscerne le abitudini. Questo non li ferma: continuano a pensare solo a come ferirla, come ucciderla. “Noi non vedevamo lo sforzo di ricerca di un uomo. Vedevamo il nemico, il membro di un apparato”, spiega il killer Barbone in aula.”
Questi ragazzi hanno rovinato la vita, propria e altrui, pensando di stare cambiando il mondo. Un mondo che forse, spesso, non conoscevano più, se mai lo avevano conosciuto, questi ragazzi che entravano in clandestinità per mesi, anni, all’inseguimento di ideali che via via andavano sfumando in una ferocia senza pari perché l’importante, oramai, era avere dei nemici, ed era sparare – forse anche per sentirsi vivi.
Il bersaglio, in un macabro rimando all’Italia delle stragi che colpiva a casaccio, quella delle trame nere che seminava il terrore per accelerare una svolta a destra, diventava via via meno rilevante.
“Ma si sparano allo specchio per vedere un uomo morto. C’è chi ammazza e chi si ammazza, e non so a chi dare torto.”
Così cantava Enzo Maolucci nella canzone amara e irriverente Torino che non è New York, proprio nell’anno in cui a Roma veniva sequestrato e poi ucciso Aldo Moro, il cui cadavere venne ritrovato il 9 maggio di 39 anni fa.
L’Italia torbida delle stragi, dei vari tentativi – ventilati, tentati, falliti – di colpi di Stato, del terrorismo nero e di quello rosso e della terrificante concorrenza tra “sigle” che ha creato un clima di guerra civile permanente, è alle nostre spalle. Quel lungo decennio è alle nostre spalle.
La Torino di quegli anni, quella terrorizzata prima e dopo il feroce assassinio dell’avvocato Fulvio Croce durante il processo alle BR, anche grazie all’umanità e al coraggio del sindaco di allora, Diego Novelli, ha saputo uscire dagli anni Settanta, gli anni inaugurati da piazza Fontana, 9 anni prima del sequestro Moro. Ci è riuscita, a fatica, negli anni Ottanta, quando oramai la fine della prima Repubblica era in gestazione, anche se non molti lo capivano, allora.
Ci è riuscita, però, come tutto il Paese, anche perché le generazioni che erano state protagoniste di quegli anni – che furono anche anni di conquiste politiche e sociali di enorme importanza – e poi le generazioni successive hanno scelto sempre più la via del disimpegno e di ogni forma di intrattenimento individuale che permettesse a molti di loro (e poi a molti di noi) di stare il più possibile alla larga della politica. Anche se voi che siete qui, oggi, avete biografie politiche che, in maniera più o meno diretta, sono figlie di quel tempo, in questo paese ancora si fa fatica a guardarsi indietro con la voglia di andare avanti.
Una legge dello Stato, dieci anni fa, ha scelto il 9 maggio come “Giorno della memoria” per ricordare “tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice”. Per provare a fare i conti con quel tratto della nostra storia che ancora sanguina, per ricordarci che non è un giorno da dedicare solo a chi ha perso la vita all’epoca, ma anche alla costruzione di un sano rapporto tra noi e la società, tra noi e la politica, tra noi e il nostro futuro.
Senza dimenticare mai quel passato, che ancora oggi ci può insegnare quanto può essere alto, in tempi difficili, il prezzo da pagare per salvare una democrazia. Per salvarla da veri o presunti venti di guerra, dalla retorica del nemico e della sua deumanizzazione, dalla retorica del “noi”, che siamo meglio di “loro”, e che siamo disposti a imbracciare un’arma per dimostrarlo.
Grazie a tutte e tutti e in particolare allo storico Carlo Greppi per il suo contributo nello scrivere queste parole.
Un commento su “Vittime del terrorismo: ricordare per andare avanti”